Davvero Apple ha perso il suo tocco?
Il fallimento di Apple Vision Pro, Apple Intelligence poco a fuoco e il pistolotto di Zuckerberg. Segni di un cedimento o si continua a fraintendere come Apple vede il mercato?
Sto scrivendo su un MacBook Pro M3, ultimo acquisto di un percorso iniziato, per quanto mi riguarda, nel 1987 con un Apple //c. Sono oltre il fanboy, potrei essere definito quasi un integralista. Ed è forse proprio questo mio punto di vista, parzialissimo e assolutamente di parte, che potrebbe aiutarmi ad inquadrare meglio di altri la situazione creativa e strategica di Apple di questi ultimi cinque anni. Parliamone.
Cominciamo dalla recente conversazione che Zuckerberg ha avuto nel Joe Rogan Podcast. Il fondatore di Facebook condivide il suo punto di vista sulla relazione tra Apple e l’innovazione.
A parte che, vabbè … Joe Rogan, ma tra le varie cose Zuck sostiene che Apple abbia perso il suo “tocco” e si stia sedendo da quasi vent’anni sulla sua ultima invenzione: iPhone. E che ogni volta che in questi anni ha provato ad esplorare nuove strade non gli sia andata benissimo. Cita, come esempio, il visore VR/AR Apple Vision Pro. È difficile difendere quest’ultimo prodotto di Apple, specialmente quando la stessa azienda che lo realizza sembrerebbe averne cessato la produzione (almeno della versione attuale).
Ora, è chiaro che il CEO di Meta stia tirando parecchia acqua al suo mulino, visto che produce Meta Quest 3, il diretto competitor del dispositivo Apple, ma vale la pena di sfruttare questo assist per approfondire un po’.
È mai esistito un “tocco” Apple?
In breve: si. Ma non ha molto a che fare con l’innovazione, piuttosto con un’altra parola: “integrazione”. Ci sono molto esempi, prendiamo il più famoso: si sottolinea spesso come l’interfaccia di Macintosh sia stata copiata dallo Xerox Alto. Ma questa è solo una parte della storia. È vero che Steve Jobs e altri dipendenti Apple fecero visita alla sede di Xerox nel 1979 e rimasero folgorati dall’interfaccia ad icone di “Alto”.
È anche vero, però, che gli ingegneri e sviluppatori Apple trasformarono quegli spunti in qualcosa di molto più coeso, coerente e in grado di girare su hardware con un target price sostenibile dal mercato. Integrarono, cioè, quelle idee in un’esperienza utente più estesa ed efficace.
Andy Hertzfeld, uno degli sviluppatori originali del sistema operativo del primo Macintosh, racconta bene il percorso di ricerca e sintesi che fece convergere molte competenze differenti in un singolo prodotto. Programmatori assembler, certo, ma anche fotografi, artisti e linotipisti. Il mantra era “raffinare”. E poi raffinare ulteriormente. E poi farlo di nuovo. Fino ad arrivare a qualcosa di molto vicino al concetto di “design ottimale”.
Tre pilastri che hanno creato un industria
Il “tocco” di Apple è (o è stato) definito da tre elementi. Il primo aveva a che fare con l’immaginare una nuova direzione. Si trattava di individuare quello che il mercato avrebbe chiesto prima che chiunque riuscisse a formulare la domanda. Nel 1981 Bud Tribble, uno dei primi ingegneri hardware in Apple, prese in prestito un termine da Star Trek per descrivere la capacità di Jobs di convincere se stesso e gli altri che alcuni ostacoli fossero meno imponenti di quanto sembrassero per spingere lui e il suo team verso nuove direzioni: lo chiamò il “Campo di Distorsione della Realtà”. Jobs si convinceva di nuove strade e spingeva gli altri a percorrerle. Vedremo come, in alcuni casi, non funzionò granché.
L’altro pilastro richiedeva di rilasciare prodotti il cui livello di attenzione al dettaglio rappresentasse, quasi da solo, lo stimolo prevalente per guadagnarsi l’attenzione necessaria a creare un nuovo segmento di mercato.
Questo approccio ha funzionato spesso e ha creato mercati milionari.
1977, Apple II
- Direzione di mercato immaginata: famiglie che vogliono utilizzare un computer a casa
- Attenzione al dettaglio: espandibilità, funzioni ROM per accedere in modo completo all'hardware
1985, Desktop Publishing
- Direzione di mercato immaginata: impaginare e produrre pubblicazioni senza essere vincolati alle tipografie tradizionali
- Attenzione al dettaglio: integrazione profonda tra UI bitmap di Macintosh e output vettoriale PostScript consentendo di utilizzare stampanti laser
1991, Quicktime e desktop video
- Direzione di mercato immaginata: creatori di contenuti video at home, senza essere costretti ad utilizzare attrezzature broadcast costose
- Attenzione al dettaglio: sviluppo di codec video leggeri, integrazione della metafora dell'EDL (cioè dei sistemi di montaggio video)
2001, iPod, iTunes e musica digitale
- Direzione di mercato immaginata: accesso ad un numero enorme di brani musicali per la fruizione on-the-go
- Attenzione al dettaglio: implementazione di DRM, esperienza utente basata su scrollwheel in grado di consentire l'accesso ad un numero molto alto di brani
E poi quel telefonino che conosciamo tutti.
Quindi, si, questo approccio ha funzionato molto spesso, trasformando Apple nel gigante che è oggi.
Ma quando non ha funzionato, è stato spettacolare
Non sempre questi due parametri sono stati messi a fuoco. Alle volte si fecero errori nell’immaginare la direzione del mercato. In alcuni casi la previsione fu troppo ottimista: i primi Macintosh faticarono a giustificare la loro interfaccia fino all’arrivo della prima killer app per quella interfaccia utente, cioè il Desktop Publishing (inventato comunque da Apple), più di due anni dopo.
In altri casi, invece, il Campo di Distorsione della Realtà è stato applicato ad una direzione del tutto sbagliata. Nel 2011 Apple produceva Final Cut Pro 7, l’applicazione di montaggio leader nel settore broadcast e tv, quando Jobs decise che la metafora NLE, cioè la metafora di montaggio di audio e video basata sulle “tracce” che ogni montatore aveva utilizzato fino a quel momento, era diventata obsoleta. Final Cut venne riscritto da zero. La nuova versione, chiamata Final Cut Pro X, implementò quella che venne chiamata “Magnetic Timeline”. Un cambiamento significativo nel modo di pensare al montaggio. Era innovativa e, per alcuni versi, migliorativa, ma richiedeva un cambio di approccio e il mercato reagì malissimo. Tantissime produzioni si allontanarono da Final Cut Pro X migrando in massa su Adobe Premiere che divenne, nell’arco di qualche mese, il nuovo leader di settore del segmento tv. Oggi quasi nessuno utilizza Final Cut Pro X in ambito professionale (anzi, c’è ancora gente che continua ad utilizzare la versione 7 vincendoci l’oscar per il montaggio).
Ma è utile ricordare un ulteriore clamoroso esempio. In quel caso Apple sbagliò sia ad individuare un mercato che a lavorare sui dettagli e sull’integrazione. Nel 1996 Apple siglò un accordo con la giapponese Bandai per sviluppare una console di gioco basata sull’hardware e sul sistema operativo Macintosh. La chiamarono Pippin (una varietà di mele, in modo simile a quella McIntosh che diede il nome al primo Mac). Era poco attraente, aveva un parco di giochi molto limitato e costava $ 599,00 che, adattato all’inflazione, sono quasi $ 1000,00 di oggi. E tutto questo quando Sony vendeva già da due anni la PlayStation a $ 299,00 arrivando a piazzare, alla data di lancio di Pippin, quasi 6 milioni di unità.
Le vendite furono modeste, e quando Steve Jobs tornò in Apple, nel 1997, cancellò l’intera linea di prodotto. Bandai abbandonò la console e Apple perse milioni di dollari di ricerca e sviluppo.
E il terzo pilastro?
Esatto. Il racconto del Pippin ci aiuta ad individuare anche l’ultima colonna del “tocco” Apple. Cos’è che definisce quasi ogni console di videogioco? Il fatto che siano sistemi chiusi, proprietari. Per sviluppare giochi serve una licenza da sviluppatore, per testarli serve un dispositivo apposito. Il prodotto finale gira su quello specifico hardware.
Apple ha sempre realizzato prodotti in cui l’attenzione al dettaglio si estendesse fino ai servizi accessori definendo un perimetro molto stretto che separava il “giardino recintato”, come lo definisce anche Zuckerberg nel podcast, dal resto. Apple ha sempre prodotto prodotti chiusi. E questo accadeva anche con l’ecosistema Apple II. Anche se Wozniak, l’altro Steve fondatore di Apple, si è sempre descritto come un amante degli standard aperti e degli hardware estendibili, i primi personal computer della mela erano macchine nelle quali la potenza di calcolo (la CPU) e le funzioni operative di base (il firmware ROM) rimanevano di dominio Apple. Chiunque poteva estendere le funzionalità del dispositivo tramite schede aggiuntive, ma il prodotto che consentiva l’esistenza di ogni add-on rimaneva proprietario.
E non fu una cosa solo di Apple. L’intero comparto industriale dell’hardware PC ha seguito questo approccio figlio di quei tempi. I cloni PC richiedevano tutti un processore basato su architettura x86 concessa in licenza da Intel. Microsoft non rese mai Open Source il codice core di MS-DOS e Windows.
Il terzo pilastro è, quindi, il prodotto chiuso. Fino a questi ultimi anni Apple si è sempre assicurata di saper gestire i confini del proprio ecosistema.
Oggi Apple sa immaginare la direzione del mercato?
L’azienda di Cupertino continua a realizzare prodotti con un’attenzione al dettaglio fuori dal comune. Tanto che è diventato prassi il definire aziende di alta qualità come “la Apple di quel settore”: DJI è la Apple dei droni, BambuLab è la Apple delle stampanti 3D, Dyson è la Apple degli aspirapolvere.
Ma il mondo si sta allontanando dal prodotto chiuso. Dopo anni di stagnazione legata all’esplosione dei social network e relativo assorbimento di tutte le menti più innovative, il mondo della ricerca tecnologica sta spostandosi in un contesto di protocolli interoperanti e soluzioni condivise. La frontiera dell’innovazione, oggi, parla il linguaggio non solo dell’Intelligenza Artificiale, ma anche della decentralizzazione tramite blockchain, della bioingegneria e dei computer quantistici. E sono mondo permeabili, in cui il prodotto finale è il risultato della sovraconnessione tra servizi e proposte in diversi campi di ricerca.
Apple resta un eccezionale manufacturer full-stack, ma non si trova a suo agio in questa dimensione di scambio e i risultati si vedono.
Il mondo dell’automotive è un mondo di sinergie, dove i player devono relazionarsi allo stesso livello o quasi. Apple non è brava in questo e dopo dieci anni di sviluppo ha chiuso il team al lavoro sul progetto Apple Car.
E se con Apple Vision Pro ha sbagliato ad anticipare la richiesta di mercato (nessuno, dai, può giustificarsi una spesa $ 3500,00 per avere … quale vantaggio concreto?), con Apple Intelligence sta mostrando come non sappia costruire bene le relazioni tra partner tecnologici sinergici. L’implementazione nell’iPhone dell’intelligenza artificiale richiede l’accesso ai servizi di OpenAI per richieste più complesse, ma a causa del gran timore di ritrovarsi con risposte generative eticamente dubbie, il software è costretto a muoversi in un perimetro molto stretto, cosa che gli rende difficile adattarsi ai contesti più quotidiani e risultare davvero utile e assistivo.
Zuckerberg ha ragione quando racconta la Apple come un’azienda seduta sui suoi prodotti di eccellenza. Potrebbe non essere più sufficiente a consentirle di mantenere la sua posizione di apripista.
L’ultima bicicletta
Durante un’intervista nel 1981 venne chiesto a Steve Jobs di esporre le sue idee per il nascente mercato dei Personal Computer. Jobs evitò ogni riferimento tecnico e descrisse questa tecnologia come “Biciclette per la Mente”.
Queste biciclette hanno consentito alla nostra specie di arrivare più in là rispetto a quanto i nostri limiti biologici ci consentano. Ma in un epoca di tramonto per il prodotto chiuso, Apple sa ancora produrre qualità, ma è ancora in grado di anticipare il futuro?
L’onda lunga di Steve Jobs potrebbe, alla fine, essersi esaurita?